Perché si uccide una donna – Articolo di Filippo Minacapilli
La violenza spesso estrema che si agisce sulle donne assume sempre più toni e colori fortemente drammatici. Omicidi a cadenza regolare che non riguardano settori ben definiti della società ma attraversano inesorabilmente tutti gli strati sociali a prescindere dallo status o dal ruolo sociale, dalla ricchezza o dalla povertà materiali, dalla professione, dalla etnia, dalla razza, dal colore della pelle.
Una violenza universale che non trova adeguate chiavi di lettura né,tantomeno , soluzioni idonee.
La donna viene uccisa, soppressa, eliminata, umiliata, devastata, offesa, probabilmente per paura,la paura del maschio nel momento in cui constata che la donna non è oggetto, il suo oggetto.
La donna come territorio di conquista, come terreno da occupare e dove poter issare la bandiera.
La donna strumento di piacere, oggetto da collezione, a volte anche status simbol, manichino sul quale appendere la propria “toga” di maschio. Quando questa non risponde ai desideri e alle aspettative del compagno, del marito, dell’ex, del corteggiatore, dell’abusatore, del maniaco ecco che scatta la molla dell’aggressività eliminatoria. Si uccide perché si ha paura del diniego, paura d’ essere abbandonati, di sentirsi derisi per la perdita del potere su di lei. Si uccide perché la donna è testimone scomoda dell’ ego frantumato, della caduta del delirio di potenza, dell’incapacità a dominare, della piccineria, della meschinità. La donna testimone del fallimento del soggetto maschio che non sopporterebbe la presenza di colei che gli ricorda d’essere un vigliacco, un prepotente, un essere abietto capace di usare violenza carnale per soddisfare il sesso consumato come espressione di basso istinto. Una donna così va eliminata, perché osa dire No!, perché osa decidere del proprio corpo, della propria vita, perché non vuole sottostare alla prevaricazione gratuita del suo carnefice. Una,questa, tra le tante spiegazioni, ma che va tenuta presente nell’analisi delle dinamiche che spingono l’uomo-maschio ad abusare della donna, della “propria” donna o di quella che gli è “appartenuta”
Il senso del possesso inevitabilmente sta alla base della reificazione della donna in quanto tale, e ciò viene alimentato dalla incultura dominante che si espande attraverso i mass media, attraverso gli stereotipi che invadono le nostre case, attraverso la stessa politica di “protezione” della donna come se fosse un essere inferiore o in stato di minorità permanente. Anche l’uso di norme che prevedono quote di riserva alimentano, possono alimentare, la formazione di modelli mentali distorti. E così le informazioni quotidiane sui ruoli della donna, sulle professioni , sugli incarichi di governo, sulle cariche manageriali. Situazioni, queste, percepite come “occupazione” anomala del territorio solitamente riservato ai maschi. La presenza delle donne nei posti chiave dell’amministrazione pubblica e privata è data come “regalia”, come “concessione” o vista come usurpazione indebita. Tale presenza simboleggia la perdita del potere assoluto dell’uomo, la sua diminuitio capitis. Ecco il perché dell’intensificarsi della violenza parallelamente con l’intensificarsi della presenza della donna nei compiti fuori dalle mura domestiche, con il suo rendersi autonoma economicamente, culturalmente oltrechè psicologicamente. Il dominio dell’uomo non tollera ciò. Non sopporta di doversi sentire alla pari, anzi al disotto di colei che reputa la schiavetta al bisogno. La donna dipinta come essere debole ha fatto comodo al mondo maschile, ha gratificato il suo bisogno di possesso cosi come, a volte, è gratificante possedere un’auto di lusso, una barca, un conto in banca. Guai a vederselo sottratto, questo simbolo di potere, di prestigio sociale. Si è disposti a tutto anche ad uccidere e ad ucciderla, se vengono meno i presupposti di narcisistica smania di predatore, di padrone indiscusso, di conquistatore, di fruitore del sesso “usa e getta”. Così come sono spinti a sopprimere la vittima designata il molestatore, il violentatore, lo stupratore per non lasciare traccia, per eliminare la propabile accusatrice dell’ ignobile autore del misfatto.
Altro dramma che si accompagna all’atto violento, quando la vittima pur profondamente ferita rimane in vita. La percezione che si genera negli altri di fronte alla denuncia , il venire quasi additata quale colpevole di aver suscitato l’atto di violenza, di avere istigato il predatore ad offenderla. Colpevole anche di trovarsi nel posto sbagliato, nell’ora sbagliata e nel vestito sbagliato! Violenza ulteriore che umilia ancora più che la violenza visssuta e subita.
Tema complesso questo della violenza contro le donne, cui vanno date risposte certe, efficaci, incisive. Non bastano le dichiarazioni di intenti, i proclami, la pubblicità “progresso”. Va ripensata l’educazione nei suoi valori fondanti, nella filosofia di base. Se questo fenomeno esiste e dilaga secondo ritmi vertiginosi, è chiaro che quanto si è fatto fin’ora non è sufficiente, non è adeguato, non risponde ai principi universali della convivenza democratica fondata sul rispetto dell’altro indipendentemente dal genere, dal sesso, dalle sue scelte sessuali, dal ruolo che occupa in famiglia e nella società.
Occorre una nuova pedagogia, dove l’individuo deve accettarsi per quello che è, con i propri limiti, le proprie debolezze, coi tratti che gli sono propri. L’individuo vale in quanto tale, non perché sia detentore di potere o perché gli si riconosca una qualità superiore. La ricerca spasmodica, spesso inconscia, di sentirsi forte, bello, attraente, potente, ricco, prestigioso porta a forme di alienazione del proprio io per assumere la maschera del qualcuno che non si è. E ciò, spesso,a discapito dell’altro o, nel nostro caso, dell’altra vista come “il mio oggetto di desiderio” nel senso più lato del termine. Una rivoluzione culturale che ruoti attorno a tale elemento cardine potrebbe, forse, aprire la strada a nuove soluzioni funzionali al contrasto e alla prevenzione della catena senza fine di omicidi di donne.
Filippo Minacapilli
Filippo Minacapilli
Oggi, 25 Novembre 2013, letto e condiviso da molti.
Che sia di contributo alla Prevenzione e al Contrasto della violenza contro le donne.